
I resti di quel che fu
Felicità transeunte di molluschi ed echinodermi
Chi percorre la strada tortuosa che da S. Sperato conduce a Cardeto, vede a mano manca, una successione di colline accavallate, giallastre, macchiate di verde alla coltre, rotte da solchi d’acqua alluvionale, appartenenti nella quasi totalità al Pliocene medio-superiore dell’Era Terziaria. E tra le sabbie giallastre, cementate dal carbonato di calcio, generato dal disfacimento meteorico degli organismi fossili più vari, l’osservatore, anche il più distratto, vede migliaia di conchiglie gigantesche tra cui primeggiano quelle di Pecten latissimus BROCCHI e di Crassostrea gigas (THUNBERG).
È uno spettacolo di vita sepolta che impressiona chi passa: ce n’è disposte in bell’ordine, l’una sull’altra, ce n’è sporgenti dalle pareti a strapiombo, ce n’è libere ovunque, tra i piedi dell’uomo sapiente o della pecora al pascolo. Ma diviene spettacolo di vita autentica, fervida, pulsante, se con gli occhi della fantasia si torna ai primordi del mondo, all’agitarsi frenetico di queste carnose creature, sistemate entro involucri discoidali e madreperlati di trenta e passa centimetri di diametro, grandi all’incirca quanto un piatto da portata.
Già i due nomi specifici – latissimus e gigas – si addicono perfettamente alle dimensioni enormi dei soggetti in questione, il cui stato di grazia, nell’ambiente marino che li ospitava, era la risultante di fattori meccanici, chimico-fisici ed organici, felicemente concordanti e di corroborante efficacia: clima tropicale, acque ad alta concentrazione salina, calde e ossigenate, ricche di microrganismi destinati a pappatoria.
Vivevano e prosperavano, dunque, le nostre abbondanti creature e conducevano esistenza comoda, piuttosto sedentaria, con la sola preoccupazione di mangiare a sazietà.
La elevata temperatura dell’acqua favoriva, inoltre, l’assimilazione del carbonato di calcio, per cui ingrassavano. Poi, per meglio difendersi dalla irruenza dei frangenti del mare, giacchè vivevano nelle zone costiere, come naturale reazione, ebbero quella di ispessirsi e irrobustirsi, sviluppando costolature e nervature.
Anche altri organismi dagli involucri spettacolari si trovano fra le sabbie gialle dell’ambiente in parola; di essi stiamo per dire confermando, ovviamente, che per tutti la vita è andata, quella vita che, pure nel significato gaudente o napoletano che sia, è un passaggio con la conseguente felicità di chi se lo piglia per intero.
Occorre ricordare che questi animali, di provenienza indo-pacifica, si intrufolarono nel Mediterraneo quando ancora questo mare era in comunicazione con l’Oceano Indiano attraverso il Golfo Persico. Anzi, a dire il vero, esisteva un unico grande oceano, detto Tetide che, dalla Penisola Iberica e dal Marocco, si estendeva sino all’Insulindia e del quale, gli ultimi relitti sono oggi rappresentati dal Mar Nero, dal Caspio, dal lago d’Aral e dal Mediterraneo attuale.
Orbene questi nostri amici, si erano installati dalle nostre parti, perché anche qui esistevano quelle condizioni ottimali che costituivano il loro ideale di vita.
A Terreti, Ortì, Marrarine, Vigna di mare e quasi ovunque, intorno agli attuali 500-600 metri di quota, si rinvengono queste forme fossili unitamente ad un’altra allegra combriccola, allora numerosisima: gli Echinodermi.
I loro più vistosi rappresentanti sono dati dai Clipeastroidi, giganteschi echinoidi, tipici del Mar Rosso e del mar dei Caraibi, a detta di qualche studioso, endemici dell’Oceano Indiano per quel che ne dice qualche altro.
Unitamente ad essi si rinvengono altri organismi che testimoniano di un clima caldo, lussureggiante, tropicale: i coralli costruttori che, se potessero parlare, direbbero dei lidi pullulanti di vita, delle scogliere coralline, delle esplosioni di forme viventi in una fantasmagorìa incredibile di colori. Oggi a ricordare il passato splendore dei Clipeastroidi, è presente nel Mediterraneo il solo Echinocyamus pusillus (O.F.MULLER); minuscolo individuo davvero, specie se confrontato con gli avanzi fossili del Clypeaster portentosus (DESMOULINS) e del Clypeaster insignis (SEGUENZA).
L’area del Mediterraneo costituì certamente un polo di attrazione ed un centro di diffusione importante, all’interno della Tetide, per queste migrazioni marine. Inoltre, anche altre specie di predatori, tipici delle acque temperato-calde, furono attratte dall’Atlantico centro-settentrionale e, aggiungendosi a quelle di tipo tropicale già esistenti, costituirono la base delle faune che ritroviamo ancor oggi.
Nel Mediterraneo, infatti, esistono specie che hanno antenati pliocenici, come i murici [Trunculariopsis trunculus L. e Murex (Bolinus) brandaris L.], i tritonidi [gen. Cymatium e la Charonia nodifera LMK.], le Turritelle [Turritella communis RISSO e Turritella tricarinata BROCCHI] e, tra i Pettinidi, il Pecten jacobaeus (L.) e la Chlamys pesfelis (L.) ed ancora, l’Arca noeae (L.) e l’Arca (Barbatia) barbata. Sono pure presenti la Natica millepunctata (LMK), l’Isocardia cor (L.), l’Ostrea edulis (L.), la Semicassis saburon (BRUG.), la Corbula (Varicorbula) gibba (OLIVI), nonché le Fissurelle [Fissurella italica (DEFR.)] e le Cipree [Cypraea (Zonaria) pyrum].
L’orogenesi terziaria li intrappolò, chiudendo a sud-est ogni passaggio, ma non se ne lamentarono. Anzi, ci stettero così bene che camparono ancora per circa sette milioni di anni, cioè finché non cominciarono i primi guai col sopraggiungere dell’era quaternaria.
Le complicazioni del freddo e del caldo
Nei primi millenni dell’era quaternaria, sopravvenne un freddo improvviso, glaciale, mai conosciuto prima d’allora, che ricoprì, sotto una spessa ed estesa coltre di ghiaccio, vaste regioni del globo, comprese quelle meridionali. In una parola, il Mediterraneo assunse l’aspetto di un territorio circumpolare. Prosperarono allora sulle sue sponde estesi boschi di Pini, Abeti, Larici e Betulle, tra i quali vissero animali quali il mammouth (Elephas primigenius), il rinoceronte lanoso o rinoceronte di Merck (Dicerorhinus merckii), la iena (Iena crocuta spelaea) e l’orso delle caverne (Ursus arctos spelaeus), la renna (Rangifer tarandus) e l’alce irlandese, un cervide dalle corna immense (Megaceros sp.).
Tutti questi resti sono stati riconosciuti lungo il corso superiore della fiumara S. Agata, a Bovetto vicino Ravagnese e ad Archi nei pressi del torrente Fiumetorbido, dove fra l’altro, sono stati ritrovati una mandibola di tipo neanderthaliano riferibile ad un bimbo di cinque o sei anni di età e la tibia di un uccello nordico simile al pinguino: l’Alca impennis (sin. Pinguinus impennis) di cui si dirà altrove.
In fondo al mare, le faune vissute felicemente finora, fuggirono quindi in ogni direzione alla ricerca disperata di una via d’uscita per sottrarsi alla terribile morsa del gelo. Ma, senza scampo.
Solo alcune specie riuscirono ad evadere attraverso la “porta” di Gibilterra. Altre perirono miseramente, altre ancora, forse più forti, si adattarono.
Contemporaneamente avanzò l’ondata migratoria, simile alla calata degli Unni, di forme provenienti dai climi freddi, che forse non vedevano l’ora di espandersi anch’esse.
Dai mari boreali nord-atlantici sopraggiunsero, insediandosi qui, “ospiti freddi” o “celtici”, dall’aspetto scialbo, piatto, privi di quelle forme maestose e di quei colori che avevano furoreggiato per tanti milioni di anni.
Come dei barbari, truci, incalzando da presso le popolazioni esistenti, si impadronirono rapidamente di tutti gli ambienti, spiagge, anfratti e scogliere, lasciati liberi dai precedenti inquilini, ancora “tiepidi”, si può dire, della loro presenza.
Vien da pensare a quei movimenti migratori che fuggono una guerra, una carestia, una pestilenza, una calamità naturale; da una parte, gli indifesi, i deboli che migrano verso lidi più felici per sfuggire il freddo e la fame, dall’altra, torme fameliche di individui, truculenti anche nell’aspetto, che si impadroniscono di ciò che trovano, depredando con voracità.
Nei terreni sedimentari attorno a Reggio (Archi, Vito, Saracinello, S. Cristoforo, Pellaro) si rinvengono: Cyprina (Arctica) islandica, Mya truncata, Natica groenlandica, Pecten septemradiatus, Chlamys princeps, Buccinum undatum e Neptunea contraria, Yoldia arctica, Tellina balthica, Modiolus modiolus e, tra i Foraminiferi, l’Anomalina balthica.
Anche in questo caso, i nomi specifici (arctica, groenlandica, islandica, balthica) bastano da soli ad evocare alla mente il freddo che ha deliziato questi “ospiti”.
Essi però non durarono molto. Si sa, in natura nulla è fisso, statico e immutabile e, quasi a voler bilanciare il conto, così com’era venuto, il freddo cessò, per lasciare il posto a nuove condizioni climatiche di caldo tropicale o subtropicale.
Come avviene dopo un temporale, ecco che apparve il sole e con esso, in un periodo detto Eutirreniano -intorno a 120-150.000 anni fa-, si ripresentarono gli “ospiti caldi”, quegli organismi a clima tropicale o subtropicale, dalle forme più bizzarre e dai colori sgargianti, a testimoniare il risveglio della natura.
Furono questa volta gli “ospiti freddi” a darsela precipitosamente a gambe, non potendo essi sopportare il grande sbalzo di temperatura. Tutto questo si ripetè, alternativamente, per ben quattro o cinque volte (non tutti gli studiosi sono ancora d’accordo); quasi una catarsi della Natura che ha voluto e vuole sempre rinnovarsi in un rimescolìo continuo, temprando e forgiando forme sempre più evolute.
Testimonianze di tutto questo parapiglia ne esistono a Reggio … e come !!! Già è mirabile di per sé il fatto che esse siano giunte fino a noi attraverso tutte queste peripezie, ma sarebbe stato pretendere un po’ troppo di ritrovarle anche integre e perfette in ogni dettaglio.
Eppure,… a Ravagnese, Trombacà, Bovetto, Vallone Cafari, Morrocu, Contrada Canone, si incontrano dei reperti le cui sculture, le ornamentazioni più fini e finanche le colorazioni originarie, si sono miracolosamente conservate attraverso i millenni e le vicissitudini tettoniche, quasi ad esaltare la mirabile opera della Natura.
Dai caldi mari dell’Africa nord-occidentale giunsero i cosiddetti “ospiti senegalesi”: lo Strombus bubonius LMK, la Patella ferruginea GMELIN, la Natica porcellana, lo Spondylus gaederopus L., la Tritonidea viverrata KIENER, la Mitra cingulosa, il Mytilus senegalensis LMK, il Pecten maximus L., il Conus vayssieri (altrimenti detto C. guinaicus dal quale si sarebbe separata la forma rheginus SEGUENZA) , il Conus testudinarius MARTINI, il Cymatium ficoides REEVE, la Bursa (Crossata) pustulosa REEVE, la Panopaea glycymeris BORN, ecc.
L'epilogo
Essendo stenoterme, di habitat tropicale o temperato-caldo, tutte queste forme non resistettero però alla ulteriore ondata di freddo che si andava approssimando. Ci riferiamo all’ultima, la glaciazione wurmiana.
Per il grande espandersi delle calotte polari che abbassò il livello marino di circa 100 metri, la fauna marina, o si estinse o emigrò lungo le coste del Senegal, della Mauritania o della Guinea.
Si ritrovano infatti colà i discendenti attuali della fauna tirreniana: lo Strombus (Lentigo) latus GMELIN, discendente dello Strombus bubonius LMK, il Cantharus (Polia) viverratus KIENER, il Mytilus (Brachidontes) puniceus GMELIN, il Cymatium ficoides REEVE, il Conus (Chelyconus) testudinarius MARTINI, il Conus (Lautoconus) vayssieri PILSBRY, ecc.
Solo poche specie, peraltro in forte regresso e sulla via dell’estinzione, sopravvivono nelle acque del “Mare Nostrum”, ma sono, per così dire, confinate in certe estreme porzioni sud-occidentali del Mediterraneo, quando non addirittura presso la « porta » di Gibilterra, che quasi quasi non possono considerarsi più nostre.
Vivono infatti nel Canale di Sicilia, nel Mare di Alboran o lungo le coste libiche e israeliane. Vien da pensare a certi individui freddolosi che si rintanano in un cantuccio, vicino la stufa, per sfuggire ai rigori del clima o per essere pronti a scappare qualora dovesse sopraggiungere una nuova, improvvisa recrudescenza.
Appartengono a questa categoria la Patella (Patellastra) ferruginea GMELIN, la Cancellaria cancellata L., la Turris (Fusiturris) similis BIVONA e la Turris (Fusiturris) undatiruga BIVONA.
Da quanto esposto, risulta evidente che c’è stato e c’è tuttora un andirivieni continuo delle forme viventi che obbediscono a fenomeni più o meno contingenti. Ma, soprattutto, i fossili, pur nel loro accatastarsi talvolta caotico, raccontandoci la loro storia e i loro viaggi, ci dimostrano quali e quante difficoltà abbiano dovuto superare per la conquista di uno spazio vitale ed una loro definitiva affermazione.Viaggi, migrazioni che fondamentalmente, si possono così riassumere: ogni forma di vita, animale o vegetale che sia, dal luogo (supposto) della sua origine, si diffonde per ogni dove sulla Terra, fino a quando non trova ostacoli insormontabili che ne impediscono l’espansione.È quel che si vede, si è visto e si vedrà. Ma fino a quando ?